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Parco del Ticino «avvelenato» dai suoi depuratori

30 marzo 2002


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Le acque ancora sporche finiscono nel fiume, minacciato soprattutto da Abbiategrasso al Po. A nord, il torrente Arno si colora di rosso

Parco del Ticino «avvelenato» dai suoi depuratori

Cinquantotto impianti nelle province di Milano, Pavia, Varese e Novara: soltanto uno però funziona bene

MILANO -La notizia è che l’acqua dell’Arno è rossa. Attenzione, non è il fiume di Firenze e il suo pigmento non è un miracolo d’alghe: è un torrente a ridosso di Malpensa, il rosso delle acque è veleno, e le sue piene uccidono. Solo alberi, è vero, ma senza pietà. Succede in un posto che sarebbe persino bello, a dispetto dei jumbo a decollo continuo, vicinissimo all’estremo confine nord del Parco del Ticino. E forse è un esempio di cosa intendeva il presidente del Parco, Luciano Saino, spiegando giorni addietro le ragioni per cui ora vuole andarsene: insomma, il Parco diagnostica, avverte dei pericoli, «dice» quel che serve, ma ha le mani legate se coloro che «devono» (cioè Comuni, Province, Regione) non «fanno». Giusto per tradurre l’esempio in cifre: su 58 depuratori comunali censiti nel 2000 all’interno del Parco, e le cui acque di scarico finiscono appunto nel Ticino (o direttamente nel Po, in due casi), ce n’è appena uno, quello di Nosate, a essersi meritato la pagella di «piena efficienza». E gli altri?
Lasciamo pure perdere Milano, che il suo depuratore lo sta pazientemente aspettando, e limitiamoci a risalire gli altri comuni del fiume azzurro, dal Pavese verso nord. Partendo da Garlasco, magari. Dove basta chiedere e te lo indicano, il depuratore: «Appena fuori dal paese, poi a destra, segua lo sterrato, non può sbagliare...». Il depuratore sta in mezzo alla campagna, oltre un cancello con la scritta «attenti al cane». Fa specie, in effetti, che il muro cui è attaccato il cancello sia sfondato alla grande neanche un metro più in là. Attraverso il varco, facendosi largo tra gli sterpi, si può entrare per dare un’occhiata: una giungla di erbacce avvolge le due vasche, gigantesche e vuote, la ruggine copre vecchie pompe.
Da una sorta di prefabbricato esce un ometto, si chiama Paolo Porta e di mestiere fa il becchino di Garlasco: «Ma da tre anni - spiega - sono anche il custode di questo posto». Un prolungamento dovuto del suo impiego principale, devono aver pensato in Comune: visto che anche il depuratore, finito 15 anni fa, in realtà è sempre stato morto. «Che io ricordi non ha mai funzionato», dice Porta. Due anni fa, giusto perché lui viveva lì, provarono ad accendergli almeno i lampioni dentro il recinto: «Sono durati una notte, poi saltarono anche quelli e nessuno li ha mai aggiustati».
Nelle stesse condizioni, più o meno, si trovano i depuratori di Travacò e Torre d’Isola.
Più in su c’è quello di Cerano. «Funzionerebbe anche bene - spiega la dottoressa Manuela Vailati, curatrice degli ultimi rilievi effettuati per conto del Parco sulla materia - se non fosse che ormai è troppo piccolo per il territorio»: l’acqua che esce dalle sue vasche, per quanto trattata e ritrattata, ha un odore e un colore che riescono comunque a far spavento. Dove va a finire? Nella Roggia Cerana: un fossato secco di suo, quando non piove, vuoi perché sistematicamente prosciugato dalle irrigazioni, vuoi perché soffocato a monte da chissaché, ma che da lì in poi si ritrova invece ad essere «alimentato» unicamente da quell’acqua fetida. Anche la Roggia Cerana, naturalmente, alla fine sfocia nel Ticino.
Il resto del viaggio-censimento fra le province di Milano, Varese, Novara e Pavia è un elenco di tentativi incompleti: quattro Comuni all’interno del Parco non hanno ancora un impianto, diciannove ce l’hanno a «rendimento basso», undici «medio- basso», diciassette «medio», due «medio-alto» (Vigevano e Pavia), soltanto uno (Nosate, come detto) promosso a pieni voti.
E poi c’è l’Arno. Un torrente di acqua sorgiva, in origine: e dunque teoricamente pulitissima. Peccato che quando arriva nelle campagne di Castano Primo, laddove in mancanza di una foce tenderebbe a disperdersi, abbia preso l’aspetto di un tè unto e puzzolente: regalo dei Comuni che attraversa. Il sistema idraulico studiato per imbrigliarla, e decantarla, consiste in un canale che via via si allarga in due grandi bacini, con tanto di cartello («Demanio idrico - Difesa e valorizzazione del suolo») della Regione Lombardia. Magari funzionerebbe anche, se i precedenti scarichi in Arno non fossero quel che sono. Senonché, quando arriva la piena, il canale tracima. Ed è lì, guardando quel che resta degli alberi circostanti, che capisci tutta la peste contenuta in quell’acqua: la base dei tronchi è nera, le cortecce croste, i rami dita secche. E’ così per centinaia di metri.
E il Ticino? Il Ticino continua ogni volta, a ogni piena, a intossicarsi e poi rinascere: lo fa così, incredibilmente, con l’ostinazione del suo carattere torrentizio e la conseguente fortuna dell’ossigenazione rapida. A monte di Abbiategrasso, dicono le analisi, il fiume azzurro arriva quasi a farsi un baffo di quel che accade fuori di lui. Ma, da lì a scendere, basta una perturbazione a gonfiare le fogne su al Nord e ciao: da una parte la Roggia Cerana con i liquami piemontesi, dall’altra lo «scolmatore» del Seveso con quelli della metropoli lombarda, e il fiume azzurro si colora per giorni di marrone.
Alle sei di sera, recuperando pian piano la sua lenza, vicino al ponte di Bereguardo, il pensionato Roberto Gorini («71 anni, sa?, e pescatore da quando ne avevo 12...») ascolta il resoconto scuotendo la testa: «È un fiume generoso, questo, ma non può aver pazienza all’infinito. Perché se ne approfittano?».

Paolo Foschini


Cronaca di Milano



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